Uzak 45 | inverno/primavera 2024

Rapsodie

Giulio Vicinelli
30-10-2017


Strofa, ritornello strofa, ritornello, strofa ritornello, strofa ritornello. Quattro ripetizioni e un finale dissonante e sorprendente come in un pezzo dei Sonic Youth degli anni ruggenti. Beautiful things è una canzone punk noise. Sul petrolio. Una sonata sbieca e lisergica. La struttura è quella di tutte le canzoni. Ogni strofa una storia, la testimonianza in prima persona di una vita di fantasma, uomini senza volto che dietro e intorno al petrolio ci vivono, ci lavorano e ci muoiono. Van, Danilo, Andrea e Vito, la chanson delle loro esistenze laterali, racconta per intero il viaggio immane dell'oro nero. Dall'estrazione alla diffusione capillare dei prodotti derivati, passando per il trasporto su navi cargo lunghe quanto l'Empire State Building e per terminare in ciclopiche strutture per lo smaltimento del disavanzo, le deiezioni del organismo mercato, la distruzione di quei rifiuti che sono la più cospicua produzione del sistema bulimico dei nostri consumi.

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Matteo Marelli
16-10-2017


altAntefatto
Succede che durante le giornate della 22a edizione del Milano Film Festival venga organizzata una performance-incontro dal titolo Falsiritorni (dall’oltrecinema). A fare da relatori ci sono Emiliano Montanari ed enrico ghezzi che partendo dalle suggestioni de L'avventura (il cui set diventerà per ghezzi una delle tante magnifiche ossessioni1) si abbandonano a un flusso di coscienza sul cinema, l’archeologia delle immagini e i ritorni. In questa discussione dissennata, dove a imporsi è la monologia ghezziana, a un certo punto colgo (tra indistinto brusio) parole chiare: «al cinema non esiste la prima visione. Solo seconde, terze, quarte... visioni». E quella che lì per lì mi sembra poco più di una frase ad effetto, due giorni dopo si carica di senso.

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Luca Romano
10-10-2017


Non ci sono molti modi per affrontare l’oscurità, è dalla luce stessa che viene generata, in una forma differenziale tra la presenza e l’assenza della luce stessa. In questo senso bisogna affrontare il documentario della coppia Ben Rivers, Ben Russell dal titolo A Spell to Ward Off the Darkness. E dal titolo bisogna partire, infatti, per addentrarsi nel film, un incantesimo è qualcosa che trascende il reale e lo trasforma, diventando esso stesso reale. È il reale che immagina se stesso, è in questo senso che il tempo interviene sulla narrazione, come passaggio, talvolta in contrazione, talvolta in distensione.

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Nicola Curzio
02-10-2017


altDall’interno di un abitacolo, attraverso un parabrezza sporco, seguiamo l’incedere costante di un autoveicolo. Fuori il cielo è sereno, così azzurro da rendere meno triste l’anonimo paesaggio circostante. Un uomo, poco più avanti, indica la strada. Sta quasi correndo. Forse è a causa sua se fin da subito si avverte un vago senso d’inquietudine. Un attimo dopo la situazione si fa più chiara: ci troviamo a bordo di un’ambulanza chiamata a soccorrere qualcuno. Quella sottile sensazione di turbamento trova ora una possibile giustificazione, ma non per questo svanisce e, al contrario, s’infittisce col passare dei minuti. Due soccorritori scendono dal veicolo, l’autista rimane al suo posto. Una nuova inquadratura ribalta la prospettiva e ci mostra il volto di quest’ultimo in primo piano, mentre fuori campo si sentono le voci dei suoi colleghi e di una donna che li informa dell’accaduto. Per alcuni interminabili secondi la mdp non si muove di un millimetro, poi finalmente un nuovo stacco di montaggio. Stavolta la ripresa è a mano e si sofferma in particolare sulla figura del dottore. Il paziente non si vede, ma il rumore del suo respiro disturbato diventa man mano insopportabile. Di nuovo all’interno dell’ambulanza, in corsa verso l’ospedale, questa volta è l’infermiera ad essere inquadrata da vicino mentre fornisce assistenza al malcapitato, di cui ancora restano celate le sembianze.

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Michele Sardone
25-09-2017


Un terzetto di scienziati è in missione per conto dell’Onu in Bolivia, per poter indagare sulle cause di un disastro ambientale. All’aeroporto attendono la loro guida locale, che non arriverà mai e che mai vedremo nel corso del film e il cui nome verrà detto, come fosse un dettaglio di alcuna importanza, un’unica volta: Helmholtz.

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Mariangela Sansone
18-09-2017

«Mai dimenticarsi. Con le piccole dimenticanze si è rovinata tutta una vita.
Dimenticare è una tragedia. Per una rosa»
(Per una rosa, Marco Bellocchio)




 

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Vanna Carlucci
11-09-2017


L’immagine come struttura potenziale, l’immagine come scorcio di un tempo nel paesaggio dell’immagine, l’immagine come una riviviscenza di un punto nel tempo che ritorna e che è sempre un altro, pieno del Senso e delle cose. Viaggio a Montevideo rappresenta una lontananza che, come tale, non è mai raggiunta, è un viaggio che ammette la partenza, il ritorno mentre «il tempo  è scorso, si è addensato, è scorso» (Campana 2003, 49). Il titolo del film di Giovanni Cioni – presentato nella sezione Satellite alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2017 – recupera tutta la cosmogonia poetica di Dino Campana il cui movimento squama il paesaggio su cui l’occhio si posa per aprire un varco, «un ponte di passaggio» che anticipa la visione.

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Leonardo Gregorio
31-07-2017


Una superficie d’acqua immota all’apparenza viene astrattamente percorsa da animali, dall’animalità che siamo capaci di esprimere quando gravemente feriti.
Clover torna a casa, nella campagna del Somerset, Inghilterra. E qui, tutto l’impianto della fattoria di famiglia ci dice che è in atto una dislocazione, uno spaesamento. Un’abitazione che non è agibile e, dunque, vuota, a causa di un’alluvione; un container dove essere provvisori ontologicamente, un bestiame che viene continuamente spostato, un cane affamato dimenticato in uno sgabuzzino tra i suoi escrementi.

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Matteo Marelli
20-07-2017


altGli Uochi Toki sono una delle intelligenze più lucide della scena musicale italiana, un ordigno sonoro che nasce dal cortocircuito tra lucidi deliri verbali («Mi sento molteplice e difficile, come i casi nella terza declinazione / Inseriti in frasi che parlano della nostra situazione») e oscure basi elettroniche; un progetto terroristico votato alla destrutturazione dei generi («Non appartengo ad un ambito / Basato su di una iconografia/audiografia che non sento mia / Dove vengono sistematicamente condannate le mie cause e le mie scelte»; o ancora: «Noi siamo alternativi, anzi, alterativi, anzi, alternati come la corrente, anzi, trasversali»); un rimedio da assumere come forma di autodifesa contro le menzogne che agiscono insinuandosi nelle pieghe del linguaggio, nei presupposti taciti delle abitudini retoriche, che il duo in questione, composto da Matteo “Napo” Palma (agli straripanti testi) e Riccardo “Rico” Gamondi (ai miasmi rumoristici), manomette con  instancabile metodica.

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