Uzak 45 | inverno/primavera 2024

Rapsodie

Luigi Abiusi
06-09-2021

Mi sono perso i primi giorni del festival. In compenso quest'anno sto a Sant'Elena, che è una specie di eremo malinconico, immagine compiuta dell'autunno - io penso che se esiste un luogo, uno spazio, con le sue superfici, i suoi miasmi, i suoi riflessi lunari, che incarni il tempo, l'autunno in modo pieno, istantaneo, quello è Sant'Elena - dove si ha nostalgia di ogni cosa e già scricchiola l'ossame, il giallo carcame delle foglie sotto le suole e nei sobbalzi del vento: sulle panchine, tra i muschi vegetanti nei pori, nei nidi già marci del legno e il barbaglio degli attracchi, lo stridio del silenzio trama segretamente col rantolo macabro dei fantasmi vaganti al vento, e allora si sente un oscuro presagio d'eternità, cioè di precarietà, che rimbomba tra i muri e le barche ammorrate.

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Giulio Vicinelli
14-06-2021

Più che per “esprimere”, nel senso dell'etimo latino exprimĕre”, “spremere fuori”, e quindi manifestare verso l'esterno, Gold Mass la musica la fa per “im-primere” o forse per “in-scrivere”, scriversi cose dentro, appunti vergati sulle interne pareti del fegato e del cuore, in una dimensione del discorso che è tutta interiore, sua soltanto.

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Marika Consoli
08-06-2021

Per giustapposizione rapsodica, la resistenza della realtà nel sogno, e viceversa, colta nella fluttuazione delle immagini, il cui anelito a spostarsi nell’orizzonte del visibile dà alla percezione di chi guarda il disorientamento dell’ombra; restando, questo approdare dell’occhio autoriale, sulla traccia di qualcosa che non c’è e che è, forse, ricordo o desiderio, immaginazione: oppure possibilità ricreata, attualizzata nel sogno appunto, nella fuga che da esso ha origine; e questa spinta evocativa, significante con la quale l’obiettivo carica di forza lo spazio del campo vuol dire, proprio, esistere ancora, esistere di più. È frammento, infatti, un istante del finale di Spaccapietre, stacco – nodo che si slaccia fra le mani, nella corsa, nel turbamento della sera, covoni, un luccichio in fondo – , per un momento: ricucendo lo spazio, dita nelle dita. Ed è questo salto dell’occhio-mente di Antò ad allargare la visione, il limen del mondo percepito, percettivo; noumeno già insito nel movimento delle scene dal basso, partendo dalla nuca all’ingiù, sul letto, anticipazione di un’acquisizione (spoliazione) straziante del vivere, intesa come conoscenza, focalizzazione sulle cose, coscienza: sono questi i presupposti del fare cinema di Gianluca e Massimiliano De Serio, i quali mettono in scena tutto uno scorrere sotterraneo, ai margini della civiltà, al limite della quale già in Sette opere di misericordia si compiva la grazia della vicinanza umana, proprio laddove la disumanizzazione dell’umano, la riduzione a bestia, a cosa, lascia, ancora, uno spiraglio per la vita.

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Sergio Sasso
14-05-2021

Il cinema non può che stregare con il suo potere ipnotico, i suoi snake eyes, il piacere della mani-polazione con una protesi meccanica ma adeguata come un guanto, il passo/ritmo sensuale, l’idillio del rito collettivo come un sabba, la conseguente tra(n)s-formazione dello spettatore in testimone/martire di un’esperienza che muore nel tempo di una rappresentazione.

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Domenico Saracino
12-12-2020

Tra i tanti, meritevoli film che il Bari International Gender Film Festival ha selezionato dai cartelloni dei principali festival internazionali e portato all’attenzione del pubblico italiano non poteva certo mancare il vincitore del Teddy Award, uno dei più importanti riconoscimenti europei destinati al cinema gay-lesbo-bisex-trans-queer-intersexual. Ovvero Futur Drei (No Hard Feelings nel titolo internazionale), indicato dalla giuria specializzata dell’ultima Berlinale come vincitore del premio riservato ai lungometraggi incentrati sulle predette materie che fu già di registi del calibro di Pedro Almodovar, Derek Jarman, François Ozon, Toddy Haynes.

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Domenico Saracino
09-12-2020

È l’estate a dominare in Cocoon, seconda opera della regista tedesca Leonie Krippendorff, presentata in anteprima mondiale, poco prima dei vari lockdown planetari, nella sezione Generation della Berlinale 2020 e riproposta in questi giorni dal Bari International Gender Festival (BiG, in streaming su Mymovies dal 4 al 12 dicembre).

Una stagione che non è certo solo riconducibile all’ambientazione dell’opera (l’afosissima estate berlinese del 2018, in cui si raggiunse la temperatura record di 38 gradi a luglio), ma aleggia, prende forma nei toni caldi della fotografia, nei corpi cocenti, eccitati, febbricitanti, nelle storie d’amore fugaci, effimere, estive appunto, degli adolescenti protagonisti di questo coming-of-age urbano.

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Mariangela Sansone
09-12-2020

Presentata nel corso della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera è un’opera molto intima diretta da Andrey Tarkovskij, figlio omonimo del regista russo, che si sofferma sulla figura del padre, raccontandolo come uomo, come persona ma soprattutto come artista.

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Marika Consoli
29-09-2020

La concitata forza del momento della visione del dipinto di Michelangelo Merisi, il movimento interno che inquadra le sette opere di misericordia a partire da quella schiena scoperta, dalla bocca a suggere il seno della donna, dai piedi lividi, diventa nel film di Gianluca e Massimiliano De Serio l’istantanea di una marginalità umana, resistente alle scosse violente del quotidiano: tutta una voragine esistenziale, laddove l’istinto di sopravvivenza si mescola alla brutalità del vivere ma si unisce, nel medesimo istante, alla grazia, che è compresenza di luce e buio: così Luminita a fluttuare in primo piano nel campo nero, il volto appena visibile su un bambino che piange, al chiarore di una palla cangiante, sole che si sposta nel vuoto e incanta, le lacrime s’asciugano, il pianto si ferma, ed è lì, in questo galleggiare azzurro nell’aria che s’apre la danza, s’allarga lo sguardo, lunghissimo piano sequenza a scavare gli occhi.

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Giulio Vicinelli
18-09-2020

«Il cinema non è la realtà, è qualcosa di diverso, forse sempre qualcosa in più, perché quando riprendi qualcosa nel momento stesso in cui diventa cinema immagine, non è più la stessa realtà. Perché per quanto ci si possa sforzare di riprendere in modo documentaristico, il più neutrale possibile, il risultato finale, la ripresa l'immagine, è sempre il reale più il tuo modo di riprenderla che esprime quindi il tuo atteggiamento e le tue intenzioni verso quella cosa»

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10-09-2020

È evidente, palpabile, al termine della visione, come Ismael El Iraki abbia voluto riversare nel suo film d’esordio, Zanka Contact, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 77, un acervo di materiali – fatti di cinema, musica, dolore – non ancora del tutto processati, sminuzzati, trasfigurati. Come se l’urgenza di consegnarlo alle fiamme purificanti della narrazione, del cinema, (è lui stesso a parlare del film come di un “incendio incontrollato”, nato da un desiderio che lo ha “consumato come una fiamma che divora tutto al suo passaggio”) fosse più importante, in fin dei conti, di una raffinazione che lo avrebbe forse reso sì, più esatto e condensato, ma anche, plausibilmente, più freddo e consumato.

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