«À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d'un Soleil, d'une brume et du magnétisme tellurique - via les indigènes du secteur...»
(F. J. Ossang, Mercure insolent)
«A occhi chiusi e nello sforzo di prendere sonno,
vedo brillare, sul fondo delle mie palpebre,
una brace: è l’anima ostinata,
il relitto lampeggiante
del naufragio glorioso del mio giorno.»
(René Char, da A una serenità contratta)
È ammirevole come un autore riesca ad essere coerente con se stesso nonostante il passare del tempo e delle mode. Si ha l’impressione che Terence Davies abbia girato A quiet passion esattamente come avrebbe fatto trent’anni fa: sceneggiatura accuratamente letteraria, ambientazione invariabilmente nel passato (che nei suoi film va dall’oleografico Ottocento fino ai non meno crepuscolari anni Cinquanta), piani sequenza con predilezione per i movimenti laterali o circolari, e in sottofondo la voce fuoricampo, che narra senza spiegare nulla, che preferisce aggiungere una sensazione piuttosto che una spiegazione, che viene anche lei dal passato, come voce lontana sempre presente.
«… Allora, dopo essere stata nell’ala morta, mia sorella scrisse un testo per descrivere quello che succedeva là dentro:
La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che la scatola cranica debba spezzarsi, sollevarsi)… La sensazione che la cella sia “in viaggio”. Ti svegli, apri gli occhi: la cella sta viaggiando; di pomeriggio, quando entra la luce del sole – di colpo si ferma. La sensazione del viaggiare però non riesci a togliertela. Non puoi dire con certezza se tremi di febbre o di freddo – in ogni caso hai freddo. Per potere parlare in tono normale devi fare lo stesso sforzo che faresti per parlare a voce alta, quasi come urlassi. La sensazione di ammutolire – non riesci più a identificare la semantica delle singole parole, la puoi solo indovinare – … La sensazione di bruciare interiormente… Agenti, visita, cortile ti sembrano essere fatti di celluloide – i visitatori non ti lasciano niente. Mezzora dopo riesci a malapena a ricostruire se la visita è avvenuta oggi o la settimana scorsa… La sensazione che il tempo e lo spazio siano incastrati uno nell’altro – la sensazione di trovarsi in una stanza di specchi deformanti – di sbandare. La sensazione di essere spellata…».
Chi ha paura di Krisha? Il suo primissimo piano in incipit è promessa di spavento, stato di attesa e rivelazione moltiplicato dalla musica gravida di pathos, graffiante. Allora Krisha la si scruta con sospensione, si cerca un indizio su quel viso che è cartografia del tempo, residuo di bellezza, occhi consumati ma aguzzi. Poi tutto cambia, o quasi.
Strofa, ritornello strofa, ritornello, strofa ritornello, strofa ritornello. Quattro ripetizioni e un finale dissonante e sorprendente come in un pezzo dei Sonic Youth degli anni ruggenti. Beautiful things è una canzone punk noise. Sul petrolio. Una sonata sbieca e lisergica. La struttura è quella di tutte le canzoni. Ogni strofa una storia, la testimonianza in prima persona di una vita di fantasma, uomini senza volto che dietro e intorno al petrolio ci vivono, ci lavorano e ci muoiono. Van, Danilo, Andrea e Vito, la chanson delle loro esistenze laterali, racconta per intero il viaggio immane dell'oro nero. Dall'estrazione alla diffusione capillare dei prodotti derivati, passando per il trasporto su navi cargo lunghe quanto l'Empire State Building e per terminare in ciclopiche strutture per lo smaltimento del disavanzo, le deiezioni del organismo mercato, la distruzione di quei rifiuti che sono la più cospicua produzione del sistema bulimico dei nostri consumi.
Antefatto
Succede che durante le giornate della 22a edizione del Milano Film Festival venga organizzata una performance-incontro dal titolo Falsiritorni (dall’oltrecinema). A fare da relatori ci sono Emiliano Montanari ed enrico ghezzi che partendo dalle suggestioni de L'avventura (il cui set diventerà per ghezzi una delle tante magnifiche ossessioni1) si abbandonano a un flusso di coscienza sul cinema, l’archeologia delle immagini e i ritorni. In questa discussione dissennata, dove a imporsi è la monologia ghezziana, a un certo punto colgo (tra indistinto brusio) parole chiare: «al cinema non esiste la prima visione. Solo seconde, terze, quarte... visioni». E quella che lì per lì mi sembra poco più di una frase ad effetto, due giorni dopo si carica di senso.
Non ci sono molti modi per affrontare l’oscurità, è dalla luce stessa che viene generata, in una forma differenziale tra la presenza e l’assenza della luce stessa. In questo senso bisogna affrontare il documentario della coppia Ben Rivers, Ben Russell dal titolo A Spell to Ward Off the Darkness. E dal titolo bisogna partire, infatti, per addentrarsi nel film, un incantesimo è qualcosa che trascende il reale e lo trasforma, diventando esso stesso reale. È il reale che immagina se stesso, è in questo senso che il tempo interviene sulla narrazione, come passaggio, talvolta in contrazione, talvolta in distensione.
Dall’interno di un abitacolo, attraverso un parabrezza sporco, seguiamo l’incedere costante di un autoveicolo. Fuori il cielo è sereno, così azzurro da rendere meno triste l’anonimo paesaggio circostante. Un uomo, poco più avanti, indica la strada. Sta quasi correndo. Forse è a causa sua se fin da subito si avverte un vago senso d’inquietudine. Un attimo dopo la situazione si fa più chiara: ci troviamo a bordo di un’ambulanza chiamata a soccorrere qualcuno. Quella sottile sensazione di turbamento trova ora una possibile giustificazione, ma non per questo svanisce e, al contrario, s’infittisce col passare dei minuti. Due soccorritori scendono dal veicolo, l’autista rimane al suo posto. Una nuova inquadratura ribalta la prospettiva e ci mostra il volto di quest’ultimo in primo piano, mentre fuori campo si sentono le voci dei suoi colleghi e di una donna che li informa dell’accaduto. Per alcuni interminabili secondi la mdp non si muove di un millimetro, poi finalmente un nuovo stacco di montaggio. Stavolta la ripresa è a mano e si sofferma in particolare sulla figura del dottore. Il paziente non si vede, ma il rumore del suo respiro disturbato diventa man mano insopportabile. Di nuovo all’interno dell’ambulanza, in corsa verso l’ospedale, questa volta è l’infermiera ad essere inquadrata da vicino mentre fornisce assistenza al malcapitato, di cui ancora restano celate le sembianze.