«Da dove veniva quel bizzarro rumore, quel ritmo lontano?... Un canto sordo che sembrava uscire dalle pareti... Sì, si sarebbe detto che le pareti cantassero!»
(Il fantasma dell’Opera, Gaston Leroux)
Verso la fine di Rat Film ci ritroviamo nel bel mezzo di un paesaggio ricostruito rozzamente al computer, in 3D. La ricostruzione virtuale non è un granché, permette anche di oltrepassare i muri e, se assumiamo un particolare punto di vista, il suolo scompare e si spalanca un abisso stellato: c’è forse questo in fondo a un’immagine?
«Questa mattina dunque vengo accanto al tuo cuscino, vengo a tirarti i capelli e assisto in estasi ai primi segni di vita del tuo risveglio. Mi siedo su una seggiola rosa, la testa appoggiata ai piedi del tuo letto, e ti contemplo con lo stupore che mi assale ogni volta che ti vedo…(Giro in fretta la testa perché mi accorgo che sto per piangere di tenerezza)» (Balthus, pag. 24).
Abbiamo un protagonista di cui non sapremo mai molto, un giovane uomo che ha perso i nomi dei luoghi, le mappe e le bussole d’ordinanza. Che ha desideri ma non li sa nominare. È però anche un uomo del suo tempo, in contatto con le tecnologie del suo tempo, e attraverso queste intuisce la possibilità inebriante di una deriva, proprio come la intendeva Guy Debord: un viaggio non pianificato per liberarsi dalla routine quotidiana, lasciandosi trascinare dalle attrattive del paesaggio e dagli incontri che questo suggerisce. Ma colui che va alla deriva non è un flâneur che sa dove andare e cosa pensare; è piuttosto uno che si getta in pasto al proprio disorientamento emotivo per riscoprire uno spazio che non conosce e che non comprende. Così Pierre si lascia alle spalle compagno, appuntamenti e Parigi, e parte affidandosi ad un navigatore speciale – Grindr, applicazione per incontri omosessuali che mappa corpi e desideri geo-localizzando gli utenti.
Eppure lo spirito ludico della partenza è frustrato già al primo tentativo d’incontro: Pierre non comprende le indicazioni stradali offerte dal potenziale amante e così si perde. È da questo primo rendez-vous mancato che il disegno sottile di Jours de France si manifesta implacabile: la spinta erotica di Pierre deve necessariamente sovrapporsi ad un impulso di riscoperta del Territorio.
Nelle tenebre elementari un gocciolio d’alba introduce alla scena prima - il fuoco artificiale dissecca la superficie - dalla terra argillosa emergono i corpi scrostati, le pelli arricciate, la virgola impercettibile dell’angelico sesso.
Il titolo STUDIO etimologicamente sintetizza l’atto e il luogo, il gesto e l’officina: implica una mobilità (mentale, fisica) che parte da una zona interna per tendere verso l’esterno (dal lat. stùd-ium che propriamente vale come impulso interno e il tendere con zelo), dunque un movimento che rievoca parallelamente l’atto di creazione artistica. Non c’è solo la volontà da parte di Francesco Dongiovanni di filmare i volti che nascono dal pennello dell’artista tarantino Pierluca Cetera ma qui, al lavoro, c’è anche l’occhio cinematografico. Si tratta dell'opera nell'opera, nel loro farsi, ovvero "l'occhio e la mano", lui che insegue l’altro in una specie di officina per due.
Il nero è un problema. Rappresentare il nero è un problema, lo è stato e lo è nel cinema, lo è nella fotografia, lo è anche nella stampa dei disegni, delle graphic novel. È un problema perché ancora oggi non si riesce ad assorbire la totalità della radiazione luminosa, quindi non si riesce a rappresentarlo. Ma più che un problema di rappresentazione è necessario capire il nero come questione sociale, perché la percezione dei colori è una questione sociale, trasformando il lavoro sul nero come un lavoro sulle parole e sul concetto. Ed ecco che il nero diventa un contorno, una forma che delimita un qualcosa, il tratto di una scritta, o il contorno di un volto. Scostarsi dalla bicromia bianco/nero è allontanarsi dall’essenza del tratto e della comunicazione, in favore di qualcos’altro che complica, che rende la comunicazione stessa incomprensibile.
«Per la felice e gioiosa riaffermazione del cinema quale strumento privilegiato di descrizione e analisi della realtà, in grado di stemperare la drammatica eredità dell’Algeria nell’apertura incondizionata e fiduciosa al futuro delle giovani generazioni». Così, nell’ambito del concorso Amore e Psiche del MedFilm Festival 2016 a Roma, la giuria ha motivato il Premio per la Miglior Regia al film Le jardin d’essai.
«Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna […]. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. […] Sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione» (Leopardi 1982, p. 151).
Il 14 settembre 2012 la nave da crociera Adventure of the Seas avvista, nella tratta di mare che separa la costa nordafricana e la Spagna, un gommone in avaria carico di migranti partiti dall’Algeria. Una storia “d'ordinaria migrazione” che il passeggero Terry Diamond decide di filmare. Ciò che ne ricava è una ripresa, in bassa risoluzione, di 3 minuti e 36 secondi che poi caricherà su YouTube.