Vista nel suo braccio acquatico, nel mezzo di due strati residuali urbani, Oslo si sparge agli occhi, fluttua, in apnea nel prologo: condensata in prolessi narrativa nel doppio sguardo costruito da Trier, prima con la messa a fuoco di lei, al di qua della balaustra, che fuma nel suo vestito nero, stretta nell’elastico, sottile fra i capelli come la striscia a percorrere la schiena; che si gira, le spalle allo spettatore in attesa, volge la testa a quello che appare dall’altra parte salire, poggiarsi sui profili alti della costa; poi con la focalizzazione delle cose, interne ed esterne a quello stesso fluire, in una sorta di orfica corrispondenza del sé, cosmogonia che inizia da lì, da quelle pupille scosse, liquefatte, sempre sul punto di annegare nelle acque trattenute a stento di quel mare.
Paolo Sorrentino sin dal suo esordio cinematografico è stato ossessionato dall’Es, l’intima natura dell’individuo che evoca una scissione della psiche, un riflesso dell’Io, una proiezione del Sé. L’uomo in più nel 2001 narrava di due uomini dallo stesso nome (Tony/Antonio) con una vita e un’indole diverse, tuttavia destinati a incrociarsi. Persino la sua ultima/unica serie televisiva si divide in due: The Young/New Pope.
Gli interrogativi che avanzano in carrellata nello spazio filmico di Annette proseguono lungo la strada attraversata in Holy Motors dalle ingombranti, rumorose limousine, sacre appunto perché motori di un cinema che però gracchia, corvino, la sua obsolescenza, l’abbandono in rimessa mucida.
Il buco, scritto (con la talentosa Giovanna Giuliani) e diretto da Michelangelo Frammartino, è un film di immagini fuori dagli sche(r)mi: singolare e tridimensionale. Anche la narrazione parte da una storia inconsueta: nel 1961 un gruppo speleologico di origini piemontesi esplora per la prima volta l’Abisso del Bifurto, denominato anche "Fossa del Lupo", un profondo inghiottitoio di circa 680 metri sulle pendici del Pollino in Calabria. Parallelamente si raccontano gli ultimi giorni di un vecchio pastore indigeno.
Per lo più, il dibattito intorno a L'Événement di Audrey Diwan, vincitore del Leono d'oro all'ultima Mostra di Venezia, si sta svolgendo intorno alla tematica, al cosa, il referente che viene espletato dalle immagini, mai intorno alla forma, al come la regista vede e mostra le cose, al suo sguardo, il gesto tutto cinematografico, che è tutto appunto, "la cosa ultima" del cinema, l'atto di aprire gli occhi e guardare le cose in un certo modo.
Mi sono perso i primi giorni del festival. In compenso quest'anno sto a Sant'Elena, che è una specie di eremo malinconico, immagine compiuta dell'autunno - io penso che se esiste un luogo, uno spazio, con le sue superfici, i suoi miasmi, i suoi riflessi lunari, che incarni il tempo, l'autunno in modo pieno, istantaneo, quello è Sant'Elena - dove si ha nostalgia di ogni cosa e già scricchiola l'ossame, il giallo carcame delle foglie sotto le suole e nei sobbalzi del vento: sulle panchine, tra i muschi vegetanti nei pori, nei nidi già marci del legno e il barbaglio degli attracchi, lo stridio del silenzio trama segretamente col rantolo macabro dei fantasmi vaganti al vento, e allora si sente un oscuro presagio d'eternità, cioè di precarietà, che rimbomba tra i muri e le barche ammorrate.
Più che per “esprimere”, nel senso dell'etimo latino exprimĕre”, “spremere fuori”, e quindi manifestare verso l'esterno, Gold Mass la musica la fa per “im-primere” o forse per “in-scrivere”, scriversi cose dentro, appunti vergati sulle interne pareti del fegato e del cuore, in una dimensione del discorso che è tutta interiore, sua soltanto.
Per giustapposizione rapsodica, la resistenza della realtà nel sogno, e viceversa, colta nella fluttuazione delle immagini, il cui anelito a spostarsi nell’orizzonte del visibile dà alla percezione di chi guarda il disorientamento dell’ombra; restando, questo approdare dell’occhio autoriale, sulla traccia di qualcosa che non c’è e che è, forse, ricordo o desiderio, immaginazione: oppure possibilità ricreata, attualizzata nel sogno appunto, nella fuga che da esso ha origine; e questa spinta evocativa, significante con la quale l’obiettivo carica di forza lo spazio del campo vuol dire, proprio, esistere ancora, esistere di più. È frammento, infatti, un istante del finale di Spaccapietre, stacco – nodo che si slaccia fra le mani, nella corsa, nel turbamento della sera, covoni, un luccichio in fondo – , per un momento: ricucendo lo spazio, dita nelle dita. Ed è questo salto dell’occhio-mente di Antò ad allargare la visione, il limen del mondo percepito, percettivo; noumeno già insito nel movimento delle scene dal basso, partendo dalla nuca all’ingiù, sul letto, anticipazione di un’acquisizione (spoliazione) straziante del vivere, intesa come conoscenza, focalizzazione sulle cose, coscienza: sono questi i presupposti del fare cinema di Gianluca e Massimiliano De Serio, i quali mettono in scena tutto uno scorrere sotterraneo, ai margini della civiltà, al limite della quale già in Sette opere di misericordia si compiva la grazia della vicinanza umana, proprio laddove la disumanizzazione dell’umano, la riduzione a bestia, a cosa, lascia, ancora, uno spiraglio per la vita.
Il cinema non può che stregare con il suo potere ipnotico, i suoi snake eyes, il piacere della mani-polazione con una protesi meccanica ma adeguata come un guanto, il passo/ritmo sensuale, l’idillio del rito collettivo come un sabba, la conseguente tra(n)s-formazione dello spettatore in testimone/martire di un’esperienza che muore nel tempo di una rappresentazione.
Tra i tanti, meritevoli film che il Bari International Gender Film Festival ha selezionato dai cartelloni dei principali festival internazionali e portato all’attenzione del pubblico italiano non poteva certo mancare il vincitore del Teddy Award, uno dei più importanti riconoscimenti europei destinati al cinema gay-lesbo-bisex-trans-queer-intersexual. Ovvero Futur Drei (No Hard Feelings nel titolo internazionale), indicato dalla giuria specializzata dell’ultima Berlinale come vincitore del premio riservato ai lungometraggi incentrati sulle predette materie che fu già di registi del calibro di Pedro Almodovar, Derek Jarman, François Ozon, Toddy Haynes.