Lévinas scriveva che nell’epifania del volto altrui, nell’approssimarsi dell’«Io» all’altro, al volto «d’Altri» la cui realtà e vera natura non stanno nella contemplazione fisionomica, del dato, bensì altrove, si scopre che il mondo ci appartiene nella misura in cui lo si può condividere con l’altro.
Nel giorno in cui aleggia nell'aria l'Arca russa, del resto dopo una masterclass intensa di Sokurov ieri mattina, è apparso in concorso al Festival del cinema europeo un film che guarda in qualche modo a quel capolavoro, a quel tipo di esperienza oltranzista, ponendosi però in una prospettiva umile, quotidiana, di ruvido espletamento del giorno, anzi della sera.
Gli occhi deragliano tra le nuvole in lento movimento, ne seguono gli spostamenti, con un ritmo ipnotico, come in una danza arcaica, si perdono negli spazi sconfinati, si elevano al di sopra di ciò che è terreno, spingendosi oltre, verso approdi mitologici. La visione della mdp è rapita da una natura arsa dal sole, in un bianco e nero tagliente e lancinante, echi poetici in cui il vento canta la sua canzone tra i rami degli alberi. Un incipit di una bellezza straziante, una sinfonia, armonica e sontuosa, in cui il tempo è dettato dalla natura e dalle sue sonorità.
La recente monografia sul regista di Pozzolengo, edita sull’ultimo numero del Quaderno del Cinemareale (novembre 2018, anno III, N. 3), accoglie visioni screziate su un’opera che si presenta unica, originalissima, assolutamente costitutiva di un modo di fare cinema che è modo di guardare, di esistere e di stare al mondo. La prassi della creazione, che passa per la scrittura, per l’esperienza sensoriale delle riprese e poi anche per il costituirsi progressivo delle scene, porta alla luce tutto un dispositivo in divenire che si mostra attraverso le ri-costruzioni critiche e di poetica sia degli autori che dello stesso Piavoli.
All’esterno della modesta abitazione di Earl Stone, in Illinois, sventola appesa una bandiera a stelle e strisce, nobile vessillo d’America. È il primo dettaglio a risaltare nell’inquadratura con la quale si apre il film di Clint Eastwood – non avrebbe potuto essere altrimenti – , che poco dopo non manca di rimarcare con irriverenza un veloce scambio verbale con i dipendenti messicani della sua attività di floricoltura.
Filmare l’epos, portare sullo schermo la storia, la leggenda del mito fondativo di Roma non è cosa semplice, si rischia di avventurarsi in una strada impervia, non priva di ostacoli, eppure Matteo Rovere, regista e produttore, con la sua nuova opera, Il primo Re, tenta una nuova dialettica filmica, arricchendo il panorama del cinema italiano e definendo una nuova mappatura cinematografica, non solo tra i generi e i nostri ristretti confini, ma nella sua intera e globale dimensione.
Provando a decriptare l’Angelus Novus di Paul Klee, incuneandosi nel ghigno misterico, quasi leonardesco del volto sgomento, tremante davanti al marasma, Benjamin esplica la sua visione della storia: nel fatuo attendere la rigenerazione, scongiurando il dovere della testimonianza – unica redenzione possibile verso la contemplazione delle cose che ci circondano – e quindi della ricerca, acuminata e soprattutto controversa, nell’ambito delle “possibilità non date”, l’uomo-angelo viene trascinato via, sospinto dal vento e dal tempo di quegli orrori che, invece, vorrebbe stare a guardare, contemplare.
«...siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo.»
(J. Lacan - Seminario X - L'angoscia)
C’è un’esigenza nel Suspiria di Luca Guadagnino che è piuttosto il compendio di una poetica a sé stante, semovente, e fatta di gestualità e materia esperite in forma mobile, in continuo modificarsi: un’esigenza vivida, flagrante, di spogliare il corpo per tornare al suo linguaggio, invece di coprirlo, per alludere o suggerire; e non è un caso che le danzatrici sia in Volk che nel sabba finale - lì senz’altro per comunicare la portata ancestrale, dal significato quasi pagano della danza – si muovano nude, o quasi nude, invasate come fossero delle menadi.
Pubblicato per la prima volta nel 1967 e ripubblicato postumo nel 1995, Germania segreta di Jesi ritrova una nuova veste editoriale a cura di Andrea Cavalletti nel volume che qui recensiamo, il quale accoglie anche interessanti materiali inediti in appendice.