A Star is Born porta inscritto già nel titolo il proprio destino di comparazione, ma anche al di là dei precedenti rifacimenti: si tratta proprio di ripensare immediatamente il film alla luce del classico, del melò, di modalità classiche di racconto cinematografico (quindi guardando soprattutto a Cukor); e di rintracciarne, per via di sviluppi e snodi narrativi, eventuali questioni teoriche, di scrittura.
Spesso il cinema (che, oggi, ricoperti come siamo di una seconda pelle elettronico-mediatica, è ovunque, expanded e diffuso e lo si incontra sulle pareti della metropolitana, nella sfilata di televisori dei grandi magazzini, sullo schermo dei telefoni cellulari, sui pullman turistici, o proiettato sul letto limaccioso di un fiume, ma in forme compresse, ottuse e inerti) si inceppa producendo qualcosa come un alone, una interferenza, un contagio che assume varie forme. Trompe l'oeil e Anamorfosi sono due di queste.
Con l’invenzione degli specchi, ma ancora prima, rimirandosi come Narciso nelle più varie superfici riflettenti, e poi con l’arte del ritratto (pittorico o scultoreo), l’umanità, come sosteneva Borges, ha coltivato l’arte abominevole di moltiplicare se stessa? Io direi piuttosto che ha messo in opera tutti i mezzi possibili per moltiplicare la propria effige, e poi per eternarla, farla esistere anche dopo la propria morte: tentativi di sopravvivenza.
Nella prefazione alla Persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter si legge «io lo so che parlo perchè parlo ma che non persuaderò nessuno […] o in altre parole “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi"», che dice, implica, la volontà di una resistenza umanistica, di un parlare produttivo, persuasivo, in tempi di Rettorica propagante, prevaricante (certo, la retorica, la sorba risaputa del mondo volgare, ottuso, privo di dialettica, ma non per questo non veritiera e pressante e denunciabile) e riguarda ovviamente anche quello che si può e si deve dire a proposito delle opere, delle immagini (e che oggi si fa con sempre maggiore violenza, senza argomenti, anzi con il gusto, il compiacimento di non averne, di dileggiare opere e autori, in estasi da followers), visto che sto qui proprio per dire delle immagini di D'Anolfi e Parenti.
«Viviamo con esseri che noi stessi abbiamo creato, baciamo fantasmi, difendiamo spettri: discutiamo d’arte con lupi mannari, trattiamo d’affari con spiriti, andiamo in giro con ombre di persone mai esistite».
(Contessa Maria degli Obrapali - Stanislaw Ignacy Witkiewicz)
Nuestro Tiempo è un film a rilascio lento, ritardato, congegno a riverbero, perchè teso tra la dimensione istintuale, animale - tori che si scornano, scorazzano nella prateria, sventrano asini, tra il ronzio delle mosche calate immancabilmente sulle interiora: una rude poesia, una ruvidità dell'immagine evocativa, che è di Reygadas sin da principio del suo cinema - e quella cerebrale, mentre dispiega le dinamiche di una coppia emancipata del nostro tempo.
Opera prima seducente, ispirata al noto romanzo di Ingo Schulze, quella di Andreas Goldstein, che ha il merito di coniugare, affondando le radici nel discorso biblico della dimensione originaria degli uomini, linearità narrativa e memoria, mediante un’architettura che dilata, intensificandola, la vita, interiore dei singoli e collettiva dei popoli, nel traslato del simbolo e dell’allegoria. Poiché nei rimandi continui a parole, situazioni, oggetti presenti nella Genesi – a partire dagli stessi nomi, che esplicitamente richiamano quelli di Adamo ed Eva, e l’insistenza delle inquadrature sul giardino, la presenza del rettile strisciante, sebbene stenti nell’erba alta, secca, ma nella scatola si muova a tratti, impedito negli spostamenti, fino alla lettura della cacciata dall’Eden da parte di Adam seduto sul letto, mentre Evelyn ostenta la carnalità delle labbra – il regista non esclude l’apertura al mondo, l’immersione nella storia, nel suo divenire.
C'è una dimensione analogica, di (precario) artigianato degli accrocchi, fumanti, unti, che risulta interessante nel First man di Chazelle - a fronte, peraltro, di molte altre parti invece stantie e stereotipe -; un intrico di lamiere, saldature, tubi zigrinati che te la fanno sentire tutta l'alta velocità (e la precarietà, l'incrinarsi del concetto stesso di sopravvivenza, di resistenza agli urti, allo schianto) con cui gli astronauti vengono scagliati nell'etere: vibrazioni vertiginose di plance, lampadine rosse di allarme, rutilare di cabine lanciate, lasciate a turbinare follemente nell'interstizio spaziale.
La persuasione dell’attesa, della possibilità che filtra dalle finestre chiuse, dello sguardo che si spalanca al mondo, al desiderio del mondo, si staglia dall’orizzonte del visibile, al passo col tempo, della musica delle parole e della vita fuori campo: «Per ogni estatico istante dobbiamo pagare un’angoscia, in pungente e tremante rapporto con l’estasi. Per ogni ora d’amore, aguzze elemosine d’anni, amari spiccioli contesi e scrigni colmi di lacrime». Dopo la prigione dei moniti, l’autoritarismo dei precetti, dell’accademia puritana del terrore che si compie, amputando nell’intimo l’aspirazione all’esistenza: si sfanno file di ragazze ordinatamente, ferma al centro la macchina da presa sulle figure silenti, fino al volto di Emily, rimasta nel mezzo dell’inquadratura in una ribellione coraggiosa, che arde quieta.
Sembra darsi nel senso della perdita, il primo lungometraggio del regista libanese Nadim Tabet, nel sole che si accascia mentre i muri si scrostano e si riardono, in un tempo perduto: lo dicono gli occhi affossati dei protagonisti, le loro voci fuori campo che arrivano a slargare le inquadrature sulla città o a rinvenire da un grumo di memoria attimi trattenuti in fotografie analogiche; non solo simulacri di ricordi, ma ricordi esse stesse, corpi di pellicola, di pelle, che su di sé conservano il segno della luce, del tempo.