Già al tempo dei Rencontres d'après minuit (2013) di Yann Gonzalez ipotizzavo l'inizio, così incerto, forse del tutto sognato, di una sorta di poetica - evanescente, appannata, sfumante nel prorpio originario niente - del sogno, nei primi anni Dieci di questo nuovo secolo, quando del resto già Héléna Klotz aveva presentato a Berlino L'Âge atomique (2012) ed evocato il notturno, traslucido palpaitare della giovinezza in corpi così senzienti, dolenti, anelanti alla propria pienezza, alla propria estasi, da non reggere a questo peso e trascolorare in fosforescenza, veglia, lacrima brillante, cioè in musica, nell'ondeggiare dei synth, del dream pop, dell'elettronica eterea, malinconicamente retro.
Vérité c’est faux
Les étoiles ont des soeurs jumelles dans les yeux des louves
Moi je n'ai pas d'étoile
Le ciel est immobile dans la mer
Moi je n'ai pas de mer.
Moi je n'ai pas de corps mais je cherche un voile
Pour voiler mon apparence de corps
Je cherche un voile imperméable
Aux regards de la vérité
Car je ne sais pas mentir et j'ai trop peur qu'un de ces jours
Elle m'apprenne que je souffre
Car alors je n'aurai pas le mensonge
Pour me dire que c'est faux.
A partire dal limine dell'après minuit, propagato però dalla mattina imminente ‒ e i rimandi al sole, alla luce, dentro e fuori dall'iconografia dello splendore che acceca, frantumando violentemente, evidentemente i notturni delle scene nella dissolvenza in entrata della mano stretta a pugno fra le catene, fra le sbarre ‒ si mostra, come nella scena in primissimo piano del taglio sulle labbra, l’altro "taglio", lo strappo, la lacerazione del contrasto. Ché poi, in fondo, l' indagine perpetrata dalle visioni mediante l'assenza di tutte quante le definizioni, scardina con la decostruzione del senso lineare del racconto l'impalcatura stessa del farsi spazio, e tempo, e ricordo del tempo e dello spazio proprio attraverso la dualità, l'ambiguità propria del dire, del nominare, che è qui visione, poesia, attraverso il paradosso della coesistenza di coralità e solitudine, epicità, perlopiù condotta dai dialoghi, e drammi individuali: compresenza di “storie” e di monadi schizzate fuori, impazzite, dal dolore ("[... ] Andiamo lontano da questa tristezza, siamo dei vecchi naufragi"), non sapendo se alla deriva si trovino uomini o fantasmi, demoni o ombre di uomini (“[…] E voi, chi siete voi veramente?").
A proposito di immagine. L’artista austriaco Egon Schiele, il cui taglio espressionista incide in copertina un particolare del Sole d’autunno e alberi, staglia su carta e inchiostro una premessa di passi, nella tensione della direzione chiaroscurale verso l’alto, e subito la inghiotte nella catabasi della distesa bruno-dorata delle foglie cadute, del «foliage» cangiante; già qui l’avvertimento che ci troveremo dinanzi ad una apparente contraddizione, anticipata da quella scelta, di dare avvio all’opera nella compresenza di motivi impressionisti e di fughe d’espressione più intense, dispa(e)rate: l’intuizione che la misura della vertigine si dà tutta in quelle linee che convergono – che divergono – sulle zolle e sui rami brulicanti.
Si dice che nel rivolgersi all’erede, Luigi XIV in punto di morte, parlasse di sé come d’un trapassato e che poi il popolo, appresa la sua morte, trasalì di gioia, danzò e cantò la fine di quel tiranno... Per evitare tumulti, il cadavere non attraversò la città, ma venne occultato per vie traverse. "Il cadavere” dice Dumas “entrando nella Basilica, non sfuggì agli insulti di quei miserabili”.
Nel giorno in cui la canaglia fascista infesterà le strade di Trieste, mi piace ricordare il libro di Umberto Saba, quello del titolo, che dice di uno spazio diverso, di contestazione: una città contigua al femminile e alle sue prerogative di grazia, arguzia, bellezza fiammeggiante. E in effetti questo Trieste Science Fiction ne propone: a parte la presenza di Stoya, protagonista algida, abbagliante nel suo biancore al silicio, di Elderlezi Rising (diretto da Lazar Brodoza), viaggio buio, viaggio al neon, e all'eros, nelle plaghe dello spazio profondo; direi soprattutto l'immagine finale di Freaks (di Zach Lipovsky), trionfo di forza femminile che vola, si libera nel cielo in coordinate di Matrix.
Sono tutti in vario modo interessanti, e di proficua lettura, i saggi contenuti nel recente volume edito da Ombre Corte, L’insorto del corpo. Il tono, l’azione, la poesia. Saggi su Antonin Artaud (a cura di Alfonso Amendola, Francesco Demitry e Viviana Vacca): interessanti ma non esenti (salvo qualche eccezione) da un certo manierismo.
Tutto è liquido, acqua, fluidi, pioggia; lucide e umide gocce scivolano tra le ramificazioni tese, accarezzano il fogliame e irrorano radici ben salde nel soffice terreno immerso, in una ritmica sinfonia tamburellante. Una storia misteriosa, tra le tenebre, i lamenti di piante carnivore e incubi osceni nella circolarità dei movimenti della mdp che scruta i volti e ruota intorno al corpo, alla ricerca del sé, proprio là dove il corpo appare frazionato in frammenti scomposti dell’immagine, frames in cerca di un ricongiungimento. Mostri che emergono da un maelstrom paludoso, da territori liquidi, animati da correnti agitate nelle profondità, sotto una superficie apparentemente calma e vitrea, ciò che non si vede e non si conosce spaventa, per la sua diversità e per la sua unicità.
Bella, anzi bellissima, la storia di Emanuela Ligarò, in arte Gold Mass, “artigiana delle frequenze” che col suo primo demo, arrivato solo dopo un apprendistato di studi, ascolti e composizioni durato anni, conquista l’attenzione di produttori internazionali del calibro di Howie B, che ha prodotto fra i tanti Björk, gli U2, e l'oscuro Tricky, di Marc Urselli, che tutti ricordano come produttore di Lou Reed, Nick Cave, Patitucci, Mike Patton e Jhon Zorn, e di Paul Savage storico produttore dei Mogway, con cui poi è effettivamente entrata in studio per lavorare a Transitions, l’album che uscirà ad Aprile 2019.
«-Perché continui a filmare?
- Per la memoria»
Still Recording è un atto d’amore. Il protrarsi di un’idea oltre la propria morte, in costante lotta contro la sua natura. Incrinandosi fino a spezzarsi, il vertoviano uomo con la macchina da presa erra tra le rovine di Douma alla ricerca della stasi, momento in cui la vita travalica la guerra, mostrando squarci dai quali sgorga il senso stesso del gesto-cinema.