L’ossessione dell’atto visivo con cui Schrader impregnava First Reformed, la sua etica intrisa dell’immagine che toccava, sommuoveva, smuoveva le pupille – le divorava: dall’interno, dentro le cavità che costruivano la luce, la perdevano ricomponevano restituivano nel fuoco cinematografico delle particelle in movimento, che era poesia in forma di visione, spazio interstiziale degli elementi del montaggio, schegge, con tutta la teoresi sulla questione ambientale – appare qui, in Tant que le solei frappe, come punto vuoto su cui sono indirizzati gli occhi, obiettivo, potenza direzionale: fuori-fuoco dove si concentra l’Idea, si proietta, si cristallizza dai gangli cerebrali sulle pareti nude, desolate, spente. Dall’alto, nell’incipit del film, la camera dirige l’obiettivo del dispositivo-Cinema e del dispositivo-Occhio verso qualcosa che non c’è (non c’è ancora) ma che già si trova, idealmente, nel punto esatto in cui l’occhio che immagina vuole che sia.
Il “new horror” americano è una magnifica realtà, un genere tornato agli antichi splendori degli anni ’70 grazie alle visioni audaci, innovative e coraggiose di registi come Ari Aster, Robert Eggers e Jordan Peele (a cui aggiungerei Rob Zombie, almeno per un paio di titoli).
«Il crollo delle galassie avverrà con la stessa grandiosa bellezza della creazione». È la memorabile falsa citazione da Blaise Pascal che apre Apocalisse nel deserto, maestoso capitolo della filmografia herzoghiana che posa lo sguardo sui pozzi di petrolio in fiamme del Kuwait, durante la guerra del Golfo. Una presa diretta, elevata a Lezione di Oscurità, che nel 1992 portò il regista ad un passo dal fondere, letteralmente, la sua cinepresa mentre in elicottero sorvolava a distanza troppo ravvicinata le lingue di fuoco. L’ossessione di Herzog per il fuoco, per il magma, per il cuore fuso della realtà è una traccia costante nel suo cinema.
«On n'aime que ce en quoi on poursuit quelque chose d'inaccessible. On n'aime que ce qu'on ne possède pas». Non può esserci amore, secondo la celebre asserzione proustiana contenuta nella Recherche, se non in ciò che non si possiede, in ciò che è impenetrato, irrisolto, indecifrato.
The Woman Who Left aveva mostrato come il cinema di Lav Diaz fosse interessato da una ricerca problematica, fosse cinema in divenire rispetto ai suoi film precedenti, che erano un'oceanica esposizione – anche in senso letterale, trasparendo ovunque la sostanza catartica, ipnotica dell'Oceano – oceanica, oltranzista riflessione (anche nel senso di riverbero) sull'entità dell'immagine, e di cui lo stupefacente Storm Children del 2014 è una sorta di sintesi.
Da queste parti - solito bestiario al lido e nelle sue appendici cittadine: ieri ad esempio, mentre mi perdevo per i calli di Cannaregio, zoppicante ed esausto, signore in belletto a bofonchiare di passerelle e percalli - si sente una certa supponenza, e un pregiudizio, riguardo al Padre Pio di Abel Ferrara: roba per papaboys, dice, o per la bassa utenza dei film televisivi in onda su raiuno nelle sere d’autunno - dopo la cena, bucce d’agrumi giacciono sul tavolo, nel piatto insieme a una morta semina di briciole, poi lo sbratto, il crepuscolo del tubo catodico, la tristezza della sera -, ma senza aver visto il film, solo per via del soggetto, il frate, il santo.
Ci sono cose che funzionano in Bowling Saturne di Patricia Mazuy, oggi in concorso a Locarno75: più che altro inferenze, dettagli, escrescenze del corpo portante del film, che è un'energica denuncia del femminicidio in forma di thriller e utilizzando la metafora della caccia.
È partita dal teatro, dai teatri di guerra e dunque dal suo Teatro di guerra (1998), la masterclass di Mario Martone al Cine Parco Tilt a Marconia di Pisticci nell’ambito della 23esima edizione del Lucania Film Festival, diretta da Rocco Calandriello.
Piccolo corpo è la rivendicazione di un respiro. È la lotta dell’esistenza per affermare se stessa, per quanto poco sia durata, è l’affermazione del diritto di avere un corpo, reale, tangibile, «piccolo» nel corpo immenso della madre terra, che dà e toglie, aggiunge e sottrae, nasconde, inghiotte, ridà: quel corpo-mare che ha attraversato lo specchio dell’acqua, scissione di un altro corpo, del corpo-ma(d)re che lo ha partorito senza potergli dare un nome e che quindi lo conduce verso le montagne, al di là del corpo-ventre della pietra scavata, cava, muta, nera, lucente a tratti di un bagliore fioco, che si spegne, muore, atterrisce e mette in fuga con gli occhi stralunati.
Vista nel suo braccio acquatico, nel mezzo di due strati residuali urbani, Oslo si sparge agli occhi, fluttua, in apnea nel prologo: condensata in prolessi narrativa nel doppio sguardo costruito da Trier, prima con la messa a fuoco di lei, al di qua della balaustra, che fuma nel suo vestito nero, stretta nell’elastico, sottile fra i capelli come la striscia a percorrere la schiena; che si gira, le spalle allo spettatore in attesa, volge la testa a quello che appare dall’altra parte salire, poggiarsi sui profili alti della costa; poi con la focalizzazione delle cose, interne ed esterne a quello stesso fluire, in una sorta di orfica corrispondenza del sé, cosmogonia che inizia da lì, da quelle pupille scosse, liquefatte, sempre sul punto di annegare nelle acque trattenute a stento di quel mare.