Camille Claudel 1915 è nei volti. Chiusa in un manicomio poco dopo la morte del padre, dopo la fine della sua relazione con Rodin, Camille Claudel osserverà se stessa sino alla morte in un contorno di urla, pianti e disperazione. Parlare di Camille Claudel 1915 di Dumont è parlare della scultura, dell'arte. «Il suo è un cinema che rigetta il senso compiuto e sterile, che, immune a semplificazioni, rifiuta grumi tematici e ridicole considerazioni intellettuali» (Sangiorgio, Baratti, 2012, p. 57).
Abbandonata dal suo fidanzato, Adèle, depressa e svuotata, va a vivere da sua cugina Rachel. Per dimenticare Mathieu e ritornare a vivere, le raccomanda Rachel, deve incontrare altri uomini…
L’espressione di un volto o le pieghe del deserto hanno in comune – nel film di Bartas – la stessa frequenza cardiaca interna. Dune dalle crepe del vento dove ogni spostamento d’aria produce uno scardinamento maggiore degli spazi, degli angoli degli occhi allargati e allagati ma ancora così claustrofobici.
James Franco, dopo essersi misurato con As I Lying Dying, altro grande romanzo faulkneriano, riparte dal capolavoro The Sound and the Fury, da Benjy e da quel lamento che prova a dire il tormento indicibile dell'esistenza prima di spegnersi nell’odore malinconico dello stramonio.
Il quindicenne Gary cerca di affrancarsi da un padre violento e alcolizzato, capace di compiere qualsiasi mostruosità. Trova aiuto e protezione in Joe, un uomo duro, solitario e devoto al suo lavoro. La loro è una lotta per la sopravvivenza nell'ostile terra del Texas.
Ritorno a Itaca. Perché se l’Odissea novecentesca delle ideologie è fatalmente giunta alla fine del suo viaggio, non resta che rifugiarsi nel Mito, nel regime del puro immaginario, tornando a casa dopo sedici anni per fare i conti con chi è rimasto.
Abel Ferrara s'aggira per Mulberry Street, una delle vie principali di Little Italy, che è stata location di alcuni dei suoi primi film, vagabondando per gli stand in corso di allestimento per la festa di San Gennaro, che dura dieci giorni: questa potrebbe essere la trama. Eppure, nessuno degli elementi appena nominati è l'oggetto del film.
«Una nuova mitologia si presenta
proprio nelle propaggini mature della modernità […].
Il mezzo che richiama alla ribalta nuovi mitologemi
di una società ormai avviata verso il suo divenire-massa […]
è il cinema».
(Karl Marx, Per la critica dell’economia politica)
Nel suo celebre saggio dedicato allo studio dei colori, Goethe propose uno dei primi esemplari di “cerchio cromatico” (in inglese color wheel) dove «i colori in esso diametralmente opposti sono quelli che nell’occhio si richiamano reciprocamente. Così il giallo richiama il violetto, l’arancio l’azzurro, il porpora il verde, e viceversa. Così anche le gradazioni si richiamano reciprocamente, il colore più semplice richiama quello più composto e il più composto quello più semplice» (Goethe 2013, p. 33). Incuriosisce il fatto che il secondo lungometraggio del giovane americano Alex Ross Perry, intitolato appunto The Color Wheel, sia stato girato interamente in bianco e nero, su pellicola 16mm. Dove sono i colori?
C’è un che di rassicurante nel sapere che dopotutto, dopo tutti i passivi nichilismi e cinismi di certo cinema mitteleuropeo, vaghi per l'Europa una nuova generazione di registi entusiasti e malinconici, ironici e lirici allo stesso tempo, smodati soprattutto rispetto ai canoni di equilibrio iconico-narrativo che vigono nel cosiddetto cinema d’autore; capaci di reinventare non solo la propria tradizione mediterranea, ma anche quella più dialetticamente europea, almeno a partire dalla comune base cogitante illuminista e arrivando a un postmodernismo che, fuori da citazionismi a sé e dentro la rianimazione e la mutazione della carne letterario-cinematografico-musicale, si presenta come l'unica forma di umanesimo possibile, anche contro certi richiami all'ordine realistico (io direi più che altro, descrittivo-mimetico) di cui s’è letto qua e là nei mesi passati.