Herzog esplora la Chauvet Cave, una caverna nel Sud della Francia, nella quale sono state dipinte le più antiche immagini che siano mai state ritrovate: figure di cavalli, rinoceronti e leoni risalenti a 35mila anni fa sembrano rianimarsi per effetto del 3D.
«Alzai gli occhi e vidi…» Dove non siamo stati. Lo sguardo scivola lentamente tra le ante socchiuse di un balcone. Una veduta. Spiraglio di aria e di luce. E si posa sui riflessi azzurri delle acque del mare, su cui, un attimo dopo, si prende a scorrere, cullati dalle onde che ripetono la loro nenia urtando contro lo scafo della nave.
Le gars è un vagabondo, un uomo al di là del bene e del male. Elle è una ragazza che lo segue fedelmente tra i sentieri della Costa d’Opale, luogo dei loro devoti pellegrinaggi. Bruno Dumont, giunto al settimo lungometraggio, sembra riallacciarsi alle dinamiche del lavoro più sperimentale e defilato della sua filmografia: Twentynine Palms. Ma l’infelice pellicola presentata a Venezia quasi dieci anni fa è uno scialbo ricordo. Il registro è cambiato, le idee appaiono più solide: siamo, probabilmente, davanti al capolavoro del regista francese.
La guerra civile nello Sri Lanka è colta in una pausa surreale che fa da sfondo alle vicende di esseri parziali rappresentati nella quotidianità di una vita senza aspettative. Abolito il mistero, il vento solo muove nella desolazione.
Jeanne Balibar non è solo straordinaria interprete del miglior cinema francese (Desplechin; Assayas; Honoré; Le Bosco; Rivette), ma anche cantante. Pedro Costa la segue esibirsi in questo percorso artistico parallelo. Una serie di concerti con il gruppo di Rodolphe Burger in Francia ed in Giappone, ma anche lezioni di canto lirico per interpretare la Périchole di Offenbach. Termine di riferimento è One plus one di Godard. JLG è una sorta di presenza/assenza nel film: in una canzone è la sua stessa voce, campionata da Histoire(s) du cinéma, a ripeterci «ne change rien pour que tout soit différent».
Attraverso le tre sezioni in cui si divide il film (fotograma, fotodrama, fototrama), Julio Bressane rievoca i luoghi che hanno contrassegnato la sua filmografia.
Marina ha 23 anni e insieme alla sua amica Bella decide di avvicinarsi al genere umano (come in quei documentari sugli animali di David Attenbourgh) e in particolare al sesso fino ad allora tenuto a distanza con l'aiuto della sua amica/rivale Bella. Intanto assisterà alla lenta morte di suo padre, Spyros ( malato terminale) in una Grecia uggiosa e decadente.
Aleggia qualcosa di ineffabile e fuggevole in queste lande spopolate messicane, al di là dell’accorata vicenda umana: un sussurro tra gli alberi, un respiro a rasentare l’erba dei campi, l’incessante frinire al trascolorare di una luce silenziosa ed eterna che una mano occlude per non accecare gli occhi.
Die Stille vor Bach è un invito a riconsiderare cosa possa oggi significare essere e sentirsi europei al di là delle contingenze economico-finanziare. Uno sguardo sulle profonde relazioni tra immagine e musica, e su come quest’ultima possa diventare patrimonio condiviso attorno al quale tornare a riflettere sul senso di "sentire comune".
«La smorfia imbronciata della ragazza è portatrice di questa usura e, al tempo stesso, partecipe del fantasma […]. Usata, affaticata, disincantata dopo che si è, probabilmente, abusato di lei per metterla in vendita, attende l’usura del cliente […]. L’abuso e l’usurpazione possono ricominciare a scuotere un altro occhio. È inutilizzabile – e, al contempo, è come se l’inutilizzabile di questo uso infinitamente ripreso continuasse a fremere non lontano dall’inutilizzabile, non sfruttabile, non esponibile nudità. Qui, nell’immagine, è infatti ancora presente una nudità che, nonostante tutto, ci emoziona, mentre siamo colti dalla tristezza che la foto ha colto».