Emilia Pérez è il punto finale di quella transizione di genere che Jacques Audiard, spesso associato a storie cupe, durissime e maschili (anche se di mascolinità vacillante, fin dai tempi di Regarde les hommes tomber, nel 1994), ha operato sul suo cinema negli ultimi anni. Prima scorrazzando allegramente nell’America del diciannovesimo secolo in compagnia dei fratelli Sisters, personaggi già dal loro cognome emblematici del tentativo di parodiare e disinnescare il suo stesso cinema e ovviamente un rigido canone di virilità che questo portava con sé, e poi con il successivo Les Olympiades.
Alain Guiraudie, con il suo ultimo film, Miséricorde, tenta di sintetizzare cinematograficamente, asciugandolo il più possibile, quel meraviglioso testo fluviale che è il suo romanzo Rabalaïre (edito da éditions P.O.L) del 2021. Un romanzo che già nel titolo identificava quel protagonista emblematico di tante storie guiraudiane, un “rabalaïre” appunto, che in occitano indica il ramingo, colui che vaga di casa in casa, che rovista nelle cose altrui, che non sta mai in un solo luogo ma è invece naturalmente predisposto all’avventura, anche romantica e sessuale, fuori dai canoni consueti.
Here manebimus optime.
L’ultimo film di Zemeckis scava una faglia colossale tra punti di vista agli antipodi, da una parte gli Stati Uniti, dall’altra parte l’Italia. In patria, infatti, Here è giudicato più o meno unanimemente un fiasco: un esiguo 37% di gradimento sull’aggregatore Rotten Tomatoes, con critiche al vetriolo che malcelano irritazione, se non addirittura acredine, per l’opera.
Luce, di Luca Bellino e Silvia Luzi, è un'opera dai toni marcatamente introspettivi che proprio nella ricerca di un senso alla vita, come di luce particolare, una manifestazione insperata, ovvero un atto puramente trascendente, dirige Marianna Fontana fuori dall'ombra disidentificante della sua vita incolore.
Ne abbiamo parlato con i suoi due autori.
In ambienti opprimenti come quelli che raffigurate, in cui i dati personali sembrano dissolversi, come si costruisce e decostruisce il concetto di identità?
Abbiamo voluto creare uno spazio simile a una catena di montaggio, un mondo in cui ripetitività e alienazione costringono la protagonista a cercare risposte solo dentro sé stessa. Abbiamo scelto una fase di lavorazione tradizionale, chiamata inchiodatura, che consiste nello stendere e fissare le pelli ad alte temperature. È una metafora perfetta: un personaggio “inchiodato” a un destino che limita la sua crescita e le impedisce di guardare verso una luce, nascosta ai suoi occhi. Questo luogo rappresenta sia la costrizione, sia la forza di chi si piega senza spezzarsi. È proprio in questo stato che si accende in lei una scintilla di fantasia che la spinge a intraprendere un percorso verso il completamento della propria identità.
Il Sud Italia sembra essere per voi l’ambiente perfetto per rappresentare il conflitto tra autorità e individuo, in un contesto rarefatto dove anche una voce ignota assume un valore approssimativamente salvifico.
Il Sud possiede strati di tensione culturale e sociale che risuonano profondamente con noi. È un luogo dove l’autorità appare quasi fisicamente impressa, un antagonista silenzioso ma sempre presente. La voce è un espediente narrativo, una guida ambigua, che sembra offrire aiuto senza mai promettere una via d’uscita certa. Non è un percorso che porta necessariamente a una risposta definitiva, ma piuttosto una ricerca che spinge il personaggio a esplorare. È il viaggio che conta, una scoperta che, anche se incompiuta, rimane indispensabile.
L’idea di riscrivere la sceneggiatura giorno per giorno è affascinante. È stata una scelta per mantenere fluida l’evoluzione della protagonista, liberandola dalla fissità di una trama rigida?
Esattamente. Partiamo con una sceneggiatura di base, ma quando ci confrontiamo con luoghi reali e le persone che li abitano, la nostra comprensione del personaggio si arricchisce. Per Luce, l’attrice Marianna Fontana si è immersa nella vita del paese per mesi, lavorando in negozi locali per assorbire le dinamiche e il dialetto del posto. Durante le prove, abbiamo riscritto scene basandoci sulle inflessioni e le esperienze reali di coloro che incontrava. Quando siamo arrivati alle riprese, tutto aveva acquisito un ritmo – quasi una danza – che rifletteva sia la precisione della sua interpretazione sia la naturalezza degli scambi che aveva vissuto.
Guardando al futuro, ritenete che i vostri prossimi progetti continueranno a indagare questi temi o immaginate di esplorare nuovi orizzonti narrativi?
Stiamo già lavorando al prossimo film, che manterrà come tema centrale la lotta contro il potere e un percorso di ribellione che emerge come una necessità inevitabile.
Quella del regista iraniano Mohammad Rasoulof è una storia di cinema clandestino, che resiste trovando sempre nuove vie per realizzare i propri film nonostante la censura del regime, gli arresti, i trattenimenti, le multe e le angherie di un potere che non ammette la libera espressione attraverso l’arte.
Il tentativo, dichiarato, di Harmony Korine in questa sua nuova fase sperimentale è quello di ipotizzare ciò che viene dopo il cinema. Se in tantissimi hanno annunciato, a vario titolo e in maniera non sempre convincente, la “fine del cinema”, in pochi hanno effettivamente tentato di immaginare cosa ci può essere al di là, verso quali luoghi traghettare l’anima di questo medium apparentemente morente.
Nel cinema ci sono forze – energie, impulsi, liberazioni – che i suoi schemi narrativi, l’insieme e l’intreccio dei quali chiamiamo comunemente “storia” o “trama”, non può (o non deve) controllare. L’atto del recitare, ad esempio: vale a dire, nella sua accezione più “performativa” e meno “rappresentativa”, l’espressione pura e incontenibile del sentire attraverso il gesto, l’azione.
Il digitale nel cinema di Francis Ford Coppola è sempre stato un elemento traumatico, qualcosa impossibile da applicare in maniera “invisibile”, ma piuttosto un’invasione che lascia segni violenti, una massa estranea che rimane a vista, come spoglia senza vita che galleggia sulle immagini.
Solo qualche considerazione, qualche appunto sull'ultimo Guadagnino: un'idea che è tarlata per un po' nella mente, costruendosi lentamente un passaggio verso il passato, in quella nebulosa d'ombre e vegetazione, volti e ossessi, che scandisce un tempo tutto affettivo, un tempo di spettatore endemico (che non poteva che guardare, tenere gli occhi spalancati sulle cose, sui fenomeni, per un'ingiunzione dell'immanenza, della natura fotodinamica della realtà); quindi dentro una pura “immagine affezione”, luogo in cui sentimento (nostalgia) e visione sono tutt'uno.
La strada del cinismo, del nichilismo passivo, e del gelido grottesco nei cui anfratti si esaurisca l'umano, che era stata del Lanthimos delle origini – ricordo l'impressione che fece all'epoca Kinetta ma ancora di più Kynodontas, a inaugurare una vera e propria maniera del cinema greco – e aveva raggiunto il culmine soprattutto nel Sacrificio del cervo sacro, ora sembra accantonata in queste Povere creature, così Bella Buxter, una robotica poi flessuosa Emma Stone, con la sincerità infantile che la contraddistingue, lo svela lapidariamente a Lanthimos (Henry): «sei solo un bambino che non sopporta il dolore del mondo. Il mondo non è solo cattivo».